giovedì 29 marzo 2007

Fur

La mia visione di ieri si chiama Fur, film di Steven Shainberg, in realtà favola immaginaria sull'inizio della carriera della fotografa Diana Arbus, interpretata dalla sublime Nicole Kidman. Nella pellicola, c'è anche lo stravvolgente Robert Downey Jr. (ecco perché metto la sua foto, scusate questo atto di femminilità immatura: woaaaaaaaaaaa!!!!!! Ma parlando di occhi, anche quello fa la sua parte, o no?).
Fur, la pelliccia, i peli, i cappelli, i vestiti, tutto ciò che è mostruoso, coprente, che impedisce la giovane donna di vedere bene quel che intende fare, cioè di buttarsi - con un progetto intimo - nella professione di fotografa. Ma appena Diane abbraccia il lavoro che sta nascendo dentro di sè, guarda caso, rasa il mostro peloso di cui si è innamorata rivelando la pelle nuda, ferita, condannata, insieme alla dolce bellezza stratosferica di lui, e va in seguito a fotografare nudisti...
Ma Fur è anche una storia d'amore lancinante tra Diane e Lionel (Robert Downey), uomo malato di irsutismo, il primo mostro (freak) fotografato dall'artista, e la sua chiave di accesso al mondo che la affascina, quello del vietato, del taboo, dell'orribile, del mostro che la renderà famosa e unica nella storia della fotografia.
Il film ci trascina così, attravverso gli occhi di Diane, in quel mondo sottostante alla depressione sua... in un gioco di immagini e parole sulla pelle pulita, coperta, pelosa o non... Sulla pulsione di amore e di morte, anche.
C'è invece poco sulla "vita" dell'artista a mio parere. D'altronde il film non mente in quanto lo annuncia dall'inizio.... Fur non ne è per tanto tempo perso, anzi: rimane, insinuante, inciso nella retina ancora molto tempo dopo averlo visto...
Molto interessante invece e collegabile al film questo paragrafo sulla psiche dell'artista: "L'opera di Diane Arbus è, come sempre accade per gli artisti che sono più realmente innovativi, frutto di un ben determinato momento storico e di un certo tipo di società, Susan Sontag, tuttavia, nel suo libro "Sulla fotografia", dedicandole alcune pagine dense di riflessioni illuminanti, tenta anche d'ipotizzare motivazioni più strettamente personali per spiegare l'aperta "rivolta rabbiosamente moralistica" contro il mondo del successo da parte di Arbus: forse una forma di "analgesia emotiva o sensoriale" l'avrebbe portata, piuttosto che non provare nulla, all'insistente ricerca della sofferenza attraverso soggetti carichi d'un vissuto drammatico; forse, al contrario, potrebbe aver tentato, sentendo troppo, di abituarsi a quegli orrori, il cui "malefico fascino" trovava irresistibile, ritrovandosi in ciò perfettamente in linea con gran parte dell'arte moderna, la quale ha continuato ad abbassare progressivamente "la soglia del terribile", modificando la morale e denunciando l'arbitrarietà dei tabù, proprio come la fotografia di Arbus ha fatto."

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